Il settore privato non riesce a regolare e governare i fenomeni globali in atto, perché essi mutano rapidamente e non possono essere gestiti da sistemi che puntano esclusivamente al profitto. Adesso Trieste intende assicurare una gestione allargata e condivisa, nella portualità come in altri ambiti, in cui il pubblico sia soggetto propositivo e a difesa della collettività. Perché lo sviluppo economico è tale solo quando risponde ai bisogni di una comunità. 

Per queste ragioni pubblichiamo, con estremo piacere, un contributo di Sergio Bologna sul tema.

La bella intervista che Mario Sommariva, nel prendere congedo da Trieste, ha rilasciato a “Il Manifesto”, mi offre lo spunto per alcune considerazioni sul ruolo che una certa governance portuale può avere sul futuro della città.

Come si conviene e dei veri manager, D’Agostino e Sommariva hanno amalgamato un squadra di notevole spessore, da Pino Casini a Antonio Gurrieri, da Vittorio Torbianelli a Vanna Coslovich e molti altri. Con il loro operato ci hanno lanciato due messaggi, che dobbiamo saper cogliere appieno:

  1. il valore del lavoro
  2. il valore del bene pubblico

A pensarci bene, questi due (apparentemente) semplici messaggi demoliscono le fondamenta del pensiero dominante, quelle su cui poggiano i due pilastri della teoria neoliberale, secondo la quale

  1. il lavoro è un costo
  2. il bene pubblico è un bene ‘morto’, per risvegliarlo bisogna consegnarlo al privato

Se noi siamo capaci di recepire questi messaggi, se quella porta che D’Agostino e Sommariva hanno aperta lasciandone solo uno spiraglio, noi fossimo capaci di spalancarla, ci si aprirebbe di fronte un orizzonte di progetti di rinnovamento capace di ridisegnare non solo la nostra città, ma il futuro dei nostri giovani.

Cominciamo dal lavoro e in particolare dal lavoro proprio di un’epoca definita “dell’economia della conoscenza”, il lavoro intellettuale. Oggi si chiede ai giovani di accumulare capitale umano mediante un forte investimento in formazione (Università in Italia e all’estero, master, diplomi, corsi di specializzazione…). Ma poi, quando si presenta sul mercato, il giovane s’accorge che questo capitale umano non vale niente, stage gratuiti, stage pagati una miseria, lavori occasionali, contratti a termine, co.co.co… Oppure assunzioni a tempo indeterminato in aziende che dopo dieci anni d’anzianità ti lasciano da dove sei partito e magari ti sostituiscono con un giovane freelance che costa un terzo.

E’ ovvio che viene voglia di scappare da un Paese come questo e di andare dove quel capitale umano almeno è riconosciuto. Riuscire ad invertire questa tendenza significherebbe assicurare al Paese quel che oggi gli manca: un avvenire. E per cambiare le cose non c’è solo il conflitto – comunque fattore indispensabile di ogni cambiamento – c’è anche la progettazione e la messa in pratica di forme associative e imprenditoriali, di logiche mutualistiche, dove il lavoro riconosce se stesso nel riconoscere gli altri.

Il valore del bene pubblico. Il rispetto e la valorizzazione di quello ancora esistente sarebbero sufficienti a cambiare il volto delle nostre città. A salvarle dalla piaga della turistificazione, per la quale la città viene arredata per piacere ad altri non per essere modellata sullo spirito, sulle energie, sulla fantasia, sulla necessità, sul lavoro di chi ci vive. Le nostre città d’arte, Venezia, Firenze, rese insopportabili per chi ci vive, consegnate, svendute, prostituite a un’orda turistica che non guarda nemmeno, non vede – fotografa. Ma aver considerato il bene pubblico un bene “morto” ha prodotto ben maggiori disastri, in primo luogo lo smantellamento di quel costrutto della civiltà che si chiama Stato. Come lo abbiamo ridotto in Italia! A una congerie di pseudo-stati riottosi quanto impotenti, capaci di generare disordine e incapaci di creare un ordine di governo. La pandemia ha messo a nudo questa tragica realtà e il prezzo che stiamo pagando per non avere più uno Stato autorevole lo si vede non solo nella scuola o nella sanità, ma soprattutto nella vita quotidiana.

Il postfordismo ha scompaginato la classe operaia, le dottrine neoliberali hanno devastato la middle class. Con la disgregazione di queste classi si sono persi dei valori, delle culture, che bene o male hanno consentito alle nostre società di difendersi dal dominio incontrollato della tecnica, si pensi alle culture del lavoro, del mestiere, della professione. Con la disgregazione dello Stato si è persa la cultura e la deontologia del funzionario pubblico, di quel senso particolare di responsabilità che è alla base del buongoverno.
Questi sono i pensieri che mi vengono nel salutare Mario e nel dirgli “grazie”. Forse non era nelle sue intenzioni darci una lezione morale, una lezione politica, forse voleva soltanto lasciar appena socchiusa quella porta che noi invece vogliamo spalancare perché crediamo che essa c’introduca in un mondo stimolante, verso un’esistenza piena di progetti e d’innovazione. Verso una nuova città, una nuova civiltà, non soltanto verso un porto efficiente.

Chiudo con un’ultima riflessione.

Il 2021 è stato dichiarato “anno di Dante”. Che grande occasione per una presa di coscienza approfondita della nostra identità! Anche per noi triestini, che quando parliamo italiano diciamo di parlare “in lingua”. Pensare a Dante oltre le dotte dissertazioni dei letterati e dei filologi significa ragionare sul linguaggio, sul nostro modo di comunicare con gli altri, su quella cosa che si chiama “parola” e che in genere ci distingue da altre “specie”. In che condizioni l’abbiamo ridotta la nostra lingua madre! Risollevarla dal fango in cui è caduta, dalle sozzure di cui l’hanno ricoperta, penso sia un esercizio spirituale e morale capace di fare di noi persone diverse. Quando penso alla lingua italiana penso immediatamente ai dialetti, a quel patrimonio espressivo incommensurabile che si sta disperdendo e quando penso alla lingua di Dante penso a un qualcosa che s’incarna nel dialetto e lo filtra attraverso diversi gradi de-localizzazione fino a renderlo un linguaggio “comune”, un bene comune. Perché quando penso o parlo con me stesso, parlo in triestino? Mi trovassi in mezzo alla catena andina e mi accorgessi di aver perso la strada, dentro di me direi: “Ostia, me son perso e adesso cossa fazo?” E giù un profluvio di parolacce. Oggi non solo perdiamo i dialetti ma anche la lingua madre, sostituita dai crittogrammi del telefonino, dal lessico degli sms. Stiamo buttando in discarica la parola. Così la tecnologia fa di noi uomini diversi, uomini “nuovi”, così modifica il nostro codice genetico. I manager di Google, del resto, lo dichiarano apertamente di volerci cambiare, di voler interferire con le nostre emozioni, con la nostra percezione, con la nostra libido.

Dante come antidoto a tutto questo! E per noi triestini un Dante pulito dalle incrostazioni nazionalpatriottiche con cui ce lo hanno reso spesso irriconoscibile. Un Dante come me lo racconta il poeta triestino Paolo Rabissi: “Partecipe anche rumoroso della dolce vita fiorentina, diventa adulto nel 1289 a Campaldino. Fa parte dei ‘feditores’, la prima linea di cavalieri armati che deve aprire lo scontro. Riesci a immaginarlo sul cavallo bardatissimo e lui stesso in calzamaglia di ferro corazza elmo piumato lancia e spadone che mena fendenti? Da qualche parte, non ricordo dove, deve aver nominato la sua spada insanguinata. Guerriero e militante politico, fendenti continua a menarli sul suo presente di papi corrotti e ignobili borghesi che fanno mercato di tutto e rovinano con l’usura i costumi e la morale non solo fiorentini. Che ne è stato di questa militanza nella lettura successiva? Molto poco. Il petrarchismo ha avuto la meglio”.

Ciao Mario! T’immaginavi, quando avete unificato la manovra ferroviaria, che stavate aprendo la strada a una nuova lettura della “Divina Commedia”?

Sergio Bologna

 

Foto tratta dal sito adriafer.com