Scala a settembre la calendarizzazione del DDL Zan, inchiodando al palo la discussione di un disegno di legge fondamentale per la dignità di tutte e tutti noi alle discussioni che, inevitabilmente, ci saranno per le elezioni amministrative che si terranno in tutta Italia tra il 3 e il 4 ottobre 2021.

Non è il primo tema riguardante i diritti civili delle persone che mette in crisi non l’opinione pubblica – un sondaggio di BiDiMedia di maggio 2021 attestava la maggioranza degli italiani a favore del DDL con una percentuale del 60% – ma l’arco parlamentare.

Il DDL era passato alla Camera, non con poche difficoltà e pochi dubbi, nel novembre del 2020. Nonostante tutto, in tante e tanti avevano salutato quel momento come un passo in avanti, una speranza concreta di una tutela a livello legislativo di non solo la comunità LGBTQIA+, ma anche di donne e persone portatrici di disabilità.

Perché questo introduce il DDL: una tutela nei confronti di persone che in questo momento non ce l’hanno.

I 10 articoli del DDL prevedono la modifica della legge Mancino (del 1992) mettendo sullo stesso piano dell’odio razziale, etnico, religioso anche la discriminazione per l’orientamento sessuale, l’identità di genere, il genere, il sesso e la disabilità. Il DDL Zan andrebbe a lavorare su una modifica alla legge prima citata, attraverso un’estensione alla già esistente legge Mancino, mirando a sanzionare i gesti e le azioni violente. E non prevede solo la sanzionabilità in ambito penale, ma anche la sensibilizzazione nei confronti di questi temi istituendo, ad esempio, il 17 maggio come la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, ricordando il giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) decise di rimuovere l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali.

E diversamente da come in molti si ostinano a dire, il DDL non andrebbe ad intaccare la libertà di opinione del singolo perché non andrebbe ad estendere, diversamente dal caso della legge Mancino, l’articolo 604 bis del Codice penale riguardo la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione etnica e religiosa.

Non è la prima volta che in Italia si debba combattere per vedersi riconosciuti dei diritti. Basti pensare al Parlamento dormiente per anni e alla gigantesca mobilitazione che sta avvenendo in questo periodo nelle piazze per la raccolta delle sottoscrizioni per l’eutanasia legale.

Resta vergognosa la battaglia parlamentare subdola che non si è condotta nei meriti del disegno legge, ma si è combattuta sulla pelle stessa delle persone. Tra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sono stati presentati oltre 1.000 emendamenti per bloccare la legge al Senato, dopo le discussioni portate avanti da Italia Viva che alla Camera aveva votato a favore.

Resta, quindi, in forse, una legge giusta, che in tanti e tante aspettano.

E se sembra una cosa lontana dalla calda quotidianità estiva triestina basta ricordare cosa successe a Trieste nel momento in cui la legge sulle Unioni Civili (detta legge Cirinnà) venne approvata.

Il Comune, guidato all’epoca già da questa amministrazione, vietò l’accesso alle Unioni Civili nella sala comunale in Piazza Unità, “donando”, invece, l’accesso in una sala dentro a Palazzo Gopcevich.

Come se vi fosse qualcosa da nascondere, da mettere sotto il tappeto, da tacciare come inesistente, prevedendo un trattamento discriminatorio e diseguale per le famiglie non “naturali” (cos’è, oibò, la natura? Chi può fregiarsi del diritto di affermare cos’è naturale e cosa no?).

Come se non bastasse, per non cambiare il nome della sala da “sala matrimoni” a “sala matrimoni e unioni civili”, nel gennaio del 2017 il Consiglio Comunale votò per il ribattezzo della sala in “Sala Tergeste”. Vi furono, anche lì, immancabili, le battute poco divertenti dell’immancabile Tuiach, all’epoca ancora vicecapogruppo della Lega, che ironizzò dicendo che lui l’avrebbe chiamata “Sala culimoni”.

Dopo un tira e molla imbarazzante con il Comune, la prima cerimonia per la celebrazione della prima unione civile a Trieste si tenne nel marzo del 2017, dopo un braccio di ferro durato 7 mesi e sbloccato solo per una sentenza del Tribunale amministrativo di Brescia, che in un caso analogo aveva dato ragione alla copia di ricorrenti.

Il caso del DDL Zan, e prima della legge Cirinnà, non sono dei casi in cui si va a chiedere l’impossibile. Ma sono dei casi in cui si va a chiedere un semplice riconoscimento di diritti civili a tutela di tutti e tutte. Non è un’estensione di privilegi. E una Giunta responsabile si porrebbe al fianco di coloro che hanno meno tutele degli altri, il cui passo risulta più pesante non per colpe e responsabilità personali, ma semplicemente per quelli che si è. Giunta che contestualmente alla sua presa di potere dopo le elezioni del 2016 era immediatamente uscita dalla rete RE.A.DY (ossia la Rete italiana delle regioni, Province Autonome ed Enti Locali che si impegna a prevenire e superare le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, tenendo anche conto dell’intersezionalità rispetto al sesso, la disabilità, l’origine etnica, l’orientamento religioso e l’età) e avena negato il Patrocino comunale al Pride che si era tenuto a Trieste per la prima volta nel giugno del 2019.

Fa tremare le vene dei polsi l’idea dei commenti che verrebbero fuori in ambito locale nel caso in cui (si spera) il DDL Zan venga approvato e diverrebbe, a tutti gli effetti, una legge dello Stato italiano.

E dà dolore il pensare al fatto che una città come Trieste che si professa “aperta” e “accogliente” non lo sia, nell’effettività, per una parte dei suoi cittadini e delle sue cittadine.