di Theo Verdiani

Queste non sono altro che riflessioni a caldo. Una reazione a pancia per non soccombere ai cattivi pensieri, quelli prigionieri del fatalismo, che ci incastrano in una logica dove il caso la fa da padrone, che ci vede spettatori passivi di uno spettacolo che non ci piace, dove si ha la sensazione di non riuscire a muoversi dalle poltroncine sulle quali siamo seduti perché schiacciati dal peso di un’emotività tossica che, pur lasciandoci intatti i muscoli, si prende beffa di noi portando le piume a pesare tonnellate.

Siamo creature orientate al restituire un senso alle cose, allo scopo di poterle rimaneggiare, sollevarle e per poi farne buon uso. Conoscerle le rende leggere esattamente come ci rende leggeri il conoscerci. Mi piace la metafora dei traslocatori professionisti che da soli, attraverso una serie di leve, qualche strumento e grazie al buon utilizzo dei punti d’equilibrio, sono in grado di trasportare mobili pesantissimi su e giù per le scale. È questo che riusciamo a fare quando conosciamo bene noi e ciò che dobbiamo portare.

È che quattro morti, di cui tre per omicidio, in così breve tempo, a Trieste non li ricordo.

È che saper di ragazzi giovanissimi coinvolti in questo genere di vicende che non hanno mai fatto parte del DNA di questa nostra città, mi spaventa e mi schiaccia emotivamente. Non so da dove iniziare a sollevare tutto questo per portarlo nel nostro futuro. Vorrei come rimanere nell’adesso per un tempo indefinito, con la speranza di ritrovare magicamente la forza, ma non sono i miei muscoli i problema: ora sono le piume a pesare tonnellate.

Solo qualche mese fa sono venuti a mancare altri due ragazzi, per “droga” dicono. Poi non s’è detto più niente.

Oggi è accaduto questo e chissà cosa si dirà, per un po’ almeno.

Io non mi do pace invece.

Sono padre e sono educatore.

Da un lato, verso mia figlia, ho un intento naturale che mi porta ad occuparmi di lei, a soddisfare i suoi bisogni reali e a discutere sul tema del domani che sarà nella nostra sfera intima. Dall’altro ho il mio intento professionale che mi porta a ricoprire un ruolo educativo nella vita di alcune persone, sicuramente importantissimo, ma non centrale nel loro progetto di vita, perché al centro sono loro. Io sono solo un buon alleato che ha il compito di giocare di sponda con gli altri attori coinvolti, stimolandoli ad inseguire la loro migliore versione di sé stessi, rafforzando il loro di intento naturale allo scopo di restituire loro la percezione di essere soggetti che sanno stare con il mondo.

Questa però è teoria.

La pratica è altra cosa.

Stiamo lavorando nella “miseria”, una miseria specialmente educativa che ci spaventa, ci disarma e ci affatica.

Personalmente per “miseria” intendo “povertà cronica”. La povertà può essere una condizione in cui tutti potremmo versare o abbiamo già attraversato, ma dalla quale si può uscirne creando valore per sé e per gli altri. La miseria invece è l’incapacità di riconoscere un valore in ciò che ci circonda. Pare che nulla ne abbia, che non esista niente per cui valga la pena crescere. Non hanno valore gli spazi, non ha valore il denaro e ne sono privi anche gli oggetti, i sentimenti, i sogni e giù sino ad arrivare alle persone.

L’altro giorno siamo dovuti intervenire con dei ragazzini di età compresa tra gli 11 e i 13 anni perché avevano scassinato la porta dell’armadietto dentro al quale tenevamo le merendine che avevamo comprato per loro. Una signora ha provato a fermarli, ma loro si sono rivolti a lei con tono intimidatorio e l’hanno, di fatto, prevaricata.

Quando siamo andati a confrontarci nel tentativo di cercare un’opportunità per creare dialogo, un contrasto che potesse generare relazione, uno di loro ha aperto la conversazione lanciandomi un petardo addosso. Non mi sono spostato. Ho lasciato che mi rimbalzasse sul giubbotto. Ad onor di cronaca: non era uno di quei petardi perniciosi fai da te, era una cosa un po’ più forte di un “minicicciolo” e un po’ più scarsa di un “raudo”. Valeva come con i regali: è il gesto che conta. Il petardo mi è esploso tra i piedi e non ho battuto ciglio inventandomi di fare il duro. È stato in quel preciso istante che hanno cominciato ad ascoltarci. Si potrebbe dire che abbiamo vinto una prova di forza, ma non è stato così. Era come se ci chiedessero: “quanto siete disposti a sopportare prima di abitare l’ascolto assieme?”

Il dialogo, al momento, non è durato molto, ma almeno lo abbiamo cominciato.

Da questi stessi ragazzini sono stato anche minacciato tempo prima e una delle frasi che mi venne abbaiata a due centimetri dalla faccia fu testualmente: “Che ne capisci tu?! Noi siamo delle popolari.”

Lui aveva 12 anni.

Ho visto ultimamente ragazzini picchiarsi ferocemente e ridere assieme subito dopo.

Anch’io da ragazzino mi “patuffavo” ogni giorno con i miei amichetti per poi tornare a giocare, ma vedere calci in pancia e scariche di pugni in faccia e relativizzare il tutto in qualche secondo m’ha spaventato. Ho pensato che se io avessi ricevuto uno solo di questi colpi, al netto della rabbia, mi sarei quantomeno offeso e non sarei rimasto lì a chiacchierare con il mio aggressore come se tanta violenza non mi riguardasse.

Ricordo pure l’altro anno dove dopo un anno di lavoro nella mediazione tra i ragazzi di un quartiere periferico della città e gli abitanti dello stesso, dopo mille iniziative e attivazioni, servì l’intervento violento di un residente per soddisfare tutti. Da lì alcuni presero coraggio e cominciarono a pattugliare il quartiere allo scopo di consegnare sberle ai ragazzini che incontravano e che sembravano irrispettosi del luogo. Inutile dire che questo non servì a nulla, ma complicò solo la situazione, specie se a prendere le sberle erano ragazzini ignari che facevano merenda su una panchina.

Era incredibile come, arrivati a questo punto, tutti avessero ragione. Ricordo che ognuno reclamava a gran voce le videocamere, probabilmente per finire a picchiarsi nei punti dove queste non sarebbero state messe. Ma si sa: il malaffare non teme i mezzi dissuasivi, impara ad aggirarli o ad usarli alla bisogna. Poi sappiamo anche che siamo tutti oppressi, è che poi non si trovano mai gli oppressori.

Ultimamente frequento ragazzi agli arresti domiciliari con molti capi d’accusa, considerati violenti, ma con delle penne incredibili, capaci di raccontare su foglio il loro disagio e svelare le bellezze nascoste in quei sogni lontani dei quali quasi provano vergogna. Noi educatori li vediamo quei sorrisi di chi si sente condannato alla miseria, ma misero ancora non lo è e prova ancora ad emozionarsi per la bellezza di cui si scopre capace.

Sono molti anni che faccio l’educatore e ho potuto riscontrare due grandi rivoluzioni. Una fu attorno al 2010 specie riguardo al mostruoso aumento di consumo di eroina da parte dei giovani triestini. Il secondo l’ho notato con il lockdown, vero e proprio catalizzatore che ha, di fatto, accelerato le dinamiche legate al disagio, all’indigenza e alla solitudine.

Questo periodo ha pure azzerato le buone pratiche che conoscevamo per agganciare i ragazzi e stimolarli in percorsi orientati alla loro realizzazione.

Di fatto ci stiamo reinventando il lavoro.

Una volta bastava un posto al chiuso, un calcetto e del tempo dedicato all’ascolto. Ora non vogliono più stare troppo al chiuso e del calcetto non gliene frega più niente, specie alla fascia dei più giovani. Solo l’ascolto conta ancora qualcosa, ma non è la lingua il problema, a noi adulti manca un linguaggio adatto. La lingua serve a comunicare informazioni e il linguaggio ad esprimere le emozioni e sappiamo tutti quanto, soprattutto oggi, le informazioni riescano a dividere le persone. È nell’esprimere emozioni che ci uniamo e troviamo un punto di contatto.
Questi ragazzi hanno un linguaggio differente e noi dobbiamo impararlo se vogliamo assicurare loro un futuro diverso da quello che stiamo intuendo da quest’ultimo anno.

Noi adulti abbiamo il dovere di sviluppare una coscienza politica che ci spinga a pre-occuparci, ossia a “preoccuparci prima che certe cose accadono”, adoperandoci nel pensiero lungo e lasciare quello breve ad altre cose purché non riguardino le persone che saranno presenti nel nostro futuro. È indifferente se poi pensando lungo “sbagliamo”, almeno insegneremo ai nostri ragazzi a dare una forma concreta al futuro, a disegnarne i contorni col tratto leggero dei sogni e il polso fermo della volontà.

Il pensiero breve non ha tempo e spazio per la curiosità, ma solo per riformulare ordinatamente le proprie convinzioni.

Il pensiero breve non si spende nel giudizio, ma pre-giudica tutto e tutti, anche il nostro futuro.

Il pensiero breve sa capire, ma non è in grado di comprendere perché a sé non prende nulla.

Il pensiero breve restituisce ad ognuno le proprie responsabilità, ma esenta sé stessi dal potersi dare una visione d’insieme, come dall’alto. Rimarremmo stupiti da quanto siamo vicini al luogo del misfatto e da come questo non ci abbia coinvolti.

Qua a Trieste continuano a morire ragazzi, altri a finire in carcere, altri ancora a rovinarsi la vita con le dipendenze e i più brillanti partono. Rimangono meno di quanto sperassi.

Per alcuni di noi sono “i propri figli” e per altri di noi solo “i figli degli altri”.

Io penso solo che siano il nostro futuro e ho bisogno di futuro perché un giorno morirò, ma vorrei che la gente potesse continuare a vivere come non saprò più fare io.

Sarò sincero: non ho una soluzione.

Sono in difficoltà, le piume pesano tonnellate nella mia Trieste.

Questa volta neppure la Bora riuscirà a portare via tutto questo, dovremo pensarci noi e ci vorrei uniti, non nella lingua, ma nel linguaggio.

Vorrei fossimo di nuovo capaci di quell’ascolto che abitai con alcuni adulti che incontrai da piccolo e che mi guarirono dalla miseria. Quell’ascolto che ad oggi, quando incontro, piccolo mi ci fa tornare.

E no!

Non voglio sentir parlar di repressione e mezzi dissuasivi.

Il fenomeno della devianza nei minori si può affrontare solo con la prevenzione e la progettualità, neppure la strategia di Erode ai tempi diede i frutti sperati.

Vorrei proposte che vedano i nostri giovani al centro e non occupati a “far cose” in disparte purché non rompano le palle.

Vorrei fiducia verso chi le proposte le ha.

Vorrei non percepire più indifferenza sull’argomento o sentire le solite conclusioni nostalgiche e disperate.

Possiamo fare ancora molto e lo possiamo fare solo tutti assieme, non abbiamo bisogno di eroi, ma di partecipazione.

Non voglio mai più sentire che a Trieste un ragazzo è morto o che un ragazzo ha ucciso.

E sì!

Possiamo fare ancora molto.

Tutti assieme.

È questo che sto dicendo sfidando quella piuma di una tonnellata che ho di fronte.

“Non lasciamoli soli. Non lasciamoci soli.”