Di Theo Verdiani

Vi è mai capitato di continuare sotto la doccia una discussione? Magari un diverbio esauritosi nel lasso di poche battute e che ha visto il vostro rivale trionfare e zompettare via  impettito come un colombo mentre voi ve ne stavate fermi lì, muti, con le parole chiuse in bocca annodate tra loro. Certo! Potrebbe trattarsi dell’esprit de l’escalier, ma anche più semplicemente essere la conseguenza della più ben saggia decisione di non rispondere a un’accusa dinamica e veloce con un concetto lento, articolato e pesante che potrebbe risultare fuori luogo. Quindi abbozzi, fai spallucce e te ne vai a morire di rabbia in qualche angolo dell’universo.

Succede.

Ora riporterò nelle righe che seguiranno l’ultima mia discussione fatta da solo in doccia. Condividerò con voi la seconda chance che mi son concesso, la mia intima rivincita morale, la mia autogena restituzione di dignità. 

La riporterò paro paro a come ho immaginato la discussione.

L’oggetto era un commento  sulla  professione dell’educatore, urlato in faccia a una mia collega qualche settimana fa.

Il casus belli è stato un ragazzino che giocava a pallone in un posto dove sarebbe stato meglio non giocasse a pallone, ma la storia è lunga e ci porterebbe fuori binario.

La frase incriminata rivolta alla collega e a cui non è stata data risposta suonava più o meno così: 

“Ma cosa la fa lei qua? La xe educator? La educhi alora!”

Grazie caro.

Ora le rispondo io direttamente dalla doccia, con le ascelle insaponate di pino silvestre e con i piedi ben piantati sul mio tappetino antiscivolo.

“Signore mio! Mi dica: cos’è per lei un educatore? 

Ecco! Facciamo così: comincerò dicendole ciò che non è un educatore.

Un educatore non è uno che insegna nulla a nessuno, o almeno non più di quanto possa insegnare lei qualcosa a qualcuno. I segni li lasciamo sempre, nostro malgrado.

Un educatore non è un istruttore, non vede nel soggetto con cui lavora un oggetto da riempire di nozioni o informazioni.

L’educatore non è la signorina Rottenmeier di Heidi. 

L’educatore non è per forza un fricchettone, obiettore di coscienza, che farfuglia cose sulla pace universale e balla a piedi nudi tra le immondizie dentro a una discarica a cielo aperto lanciando in aria birilli e fischiettando motivetti in maggiore.

E comunque non è così corretta la frase che ha appena pronunciato: “…allora educhi!”.

È come urlare a un salumiere: “ Allora cominci a tagliare!”

È come urlare a un medico: “Allora cominci a medicare.”

È come urlare a un poliziotto: “Allora cominci ad arrestare!!”

Vien da sé che la risposta che ci si potrebbe aspettare da chiunque di questi professionisti a fronte di una richiesta del genere potrebbe essere: “Ma chi??? Cosa??? Perché?? Chi è lei???”

È uguale.

L’unica cosa che mi fa empatizzare con lei, signore mio, è che se uno pensa a un salumiere, a un medico o a un poliziotto ha ben chiaro quali siano le mansioni che questi svolgono, hanno addirittura una divisa che li contraddistingue dagli altri, degli strumenti di lavoro ben chiari e caratterizzanti, etc…

Un educatore non è una figura immediatamente riconoscibile, a volte sembriamo dei scappati di casa che fanno cose, vedendo gente e stando nei posti. A volte potrebbe vederci in silenzio con qualcuno a fissare il vuoto. Altre volte, magari, potrebbe notarci mangiare un gelato con una persona che parla sola, tentando di entrare delicatamente nel suo delirio. Altre volte ancora potrebbe individuarci nel mezzo di un contesto al quale, di primo acchito, sembriamo alieni, per esempio potremmo essere delle persone sorridenti, in camicia e scarpe buone in mezzo a un gruppo di Punkabbestia colorati e strafatti di stramonio. Sono cose che succedono.

Caro signore mio, è proprio lì che può ammirare il nostro esercizio di professione: noi “educhiamo” nelle maniere più disparate e nei momenti più improvvisi. Non abbiamo un orario e non è detto che il Natale possiamo sempre passarlo in famiglia. Noi ci siamo e basta ed è questa la prerogativa di chi educa: esserci.

Non abbiamo divisa, siamo solo puliti e il nostro strumento fondamentale è la relazione.

Quindi da ciò possiamo evincere quanto poco divertente e complesso potrebbe essere per qualcuno vestirsi a carnevale da educatore.

Forse si merita un ulteriore chiarimento, magari dovremmo specificare cosa s’intende per educare, ossia “trarre fuori”, “allevare”. 

Vede?

Chi istruisce “mette dentro”, “riempie”, mentre chi educa fa un atto complementare, ovvero “trae fuori.”

Si sta chiedendo cosa traiamo fuori?

Traiamo fuori la migliore versione del soggetto con cui stiamo lavorando.

Perché lo facciamo?

Lo facciamo perché noi puntiamo a restituire alle persone con le quali lavoriamo la percezione di loro stesse come soggetti che sanno “stare con il mondo” e non “al mondo”. Al mondo ci stanno le pietre, mentre con il mondo ci stanno gli esseri viventi. Questa cosa è fondamentale perché noi siamo riusciti a sopravvivere nei secoli grazie al nostro saper essere animali sociali. Ha presente la tigre dai denti a sciabola oppure il tirannosauro?

Ecco.

Conviene con me il fatto che queste macchine da guerra fossero creature meravigliose tanto quanto letali?

Ecco.

Eppure si sono estinti malamente e invece noi siamo qua da millenni con tanto di pancetta, mal di schiena e quella cosa di spingere le porte quando viene indicato di tirarle e viceversa.

Sa perché?

Perché, nonostante lei, noi ci diamo bado gli uni con gli altri, corriamo in soccorso di chi è più in difficoltà, noi sappiamo comunicare e per questo stare assieme.

Chiaro che per stare bene con gli altri bisogna essere “educati” nell’accezione di cui sopra. E dato che tutti devono stare con tutti, TUTTI devono essere “educati”.

Dobbiamo rincorrere il “nostro miglior sé stesso” come direbbe Benni, poi continuerebbe dicendo che ci vuole un gran fisico per correre dietro ai sogni.

Sì.

Non mi sorrida, la prego.

Non pensi che io sia una persona di buon cuore.

Un educatore è un professionista e come tale, se bravo, può pure permettersi di essere antipatico.

Per essere educatori bisogna studiare, addirittura all’università e l’esame non consiste nel fare la sagomaccia e far scompisciare dal ridere i docenti.

C’è tanta letteratura su cui avvalersi e altra ancora da produrre.

Non è la mia simpatia l’elemento decisivo che la spingerà a far uscire la miglior versione di lei stesso, come non lo sarà una mia punizione, o un mio veto, o un mio premio, o qualsiasi cosa io decida senza averla coinvolta o resa partecipe al processo di realizzazione della stessa.

Giustamente adesso mi chiede di andare al sodo e di dirle cosa fa di preciso un educatore quindi.

Non volevo ammorbarla con concetti astratti, mi scusi.

È che dall’astratto noi partiamo per arrivare poi al concreto.

Sa che anche “astratto”, per ironia della sorte, deriva da “trarre fuori”.

Partiamo dalla leggerezza dell’astratto per arrivare al concreto, che poi sarebbe il participio passato di “concrescere” ossia addensare.

Non abbia paura.

Non ho fatto il classico è che mi piacciono le parole e, le confido, ancora di più travisarle.

Lo so, ma guardi che un progetto di edilizia non è differente: uno immagina una struttura in un posto che si presta ad accoglierla, la disegna e poi la costruisce. Anche lì si parte dall’astratto per arrivare al concreto. È la vita.

Certo! Un professionista dell’edilizia può passare con la macchina davanti a una struttura che ha costruito e può tranquillamente dire al figlioletto seduto sul seggiolone: “Guarda piccolo mio! Quella casa l’ha costruita papà!”

Io invece, al massimo, posso dire a mia figlia: “Amore, vedi quel tipo laggiù? È da un bel pezzo che non si fa una pera. Non è merito mio però. Bravo lui.” Tra l’altro fare una cosa del genere sarebbe addirittura penale. Sa, con la privacy non si scherza.

È che il valore che creiamo non è visibile a occhio nudo.

Ben che lavoriamo aiutiamo a mantenere uno status quo più o meno funzionale, anche se il nostro mandato sarebbe quello di romperlo sto status quo fino ad arrivare al benessere e alla realizzazione completa di un individuo o di una comunità.

Guardi: io lavoro molto con ragazzi con problemi di uso, abuso e dipendenza da sostanze stupefacenti, ragazzi mandati dal tribunale o chiusi direttamente in carcere. Potrei dire che mi muovo all’interno del meraviglioso mondo della “devianza pedagogica”.

Nella devianza pedagogica l’oggetto sofferente è la coscienza intenzionale di un individuo. Ha presente quel tipo di bambino che per manifestare affetto verso qualcuno lo massacra di calci? Una cosa simile.

Solo ora sostituisca il bambino con un energumeno di un metro e novantacinque e sostituisca quel qualcuno con me.

Se tra una sessione di calci e un’altra riuscirò a far capire al soggetto che è anche in grado di dire “ti voglio bene” e che se riuscirà a dire queste paroline magiche ogni volta che sentirà quel determinato stimolo, che potremmo indicare come affetto, quel soggetto smetterà di essere un pericolo pubblico e diventerà magari solo uno di quelli che postano su Facebook versi tratti dalle opere di Gio Evans. Bene, ma non benissimo.

Certo, credo che nessuno meriti un applauso per questo, ma se riuscissimo a lavorare su tutti questi soggetti ne guadagneremmo tutti in sicurezza e ci scapperebbe pure il gelato per Gio Evans.

Un’utopia?

Non creda.

Poc’anzi ho utilizzato un “se riuscissimo a lavorare” e non “se gli educatori riuscissero a lavorare”

Sa perché?

Solo in alcune occasioni un educatore si occupa del progetto pedagogico ed educativo del singolo, in altre occasioni un educatore prende in carico direttamente tutta una comunità promuovendone lo sviluppo, agevolando la dinamica dove il singolo va a occuparsi del suo sistema di riferimento e il suo sistema di riferimento va a occuparsi del singolo per garantire il reciproco funzionamento.

Sì. Perché il tutto è più della somma delle parti. 

Mi segue?

Lo sviluppo di comunità prevede il fatto che, dopo la sessione di calci sugli stinchi dal bambino, venga a prendermene anche un po’ da lei allo scopo di convincerla a darmi una mano con quel che può, con quel che ha, a valorizzare il contesto dove lei vive e che per qualche strano motivo non sente suo. 

Farla partecipare alla vita, diamine!! E tutto allo scopo di raggiungere un suo benessere anche attraverso il benessere degli altri.

Le faccio un esempio pratico: anni fa, prima che l’educativa di strada sparisse misteriosamente dal tessuto sociale cittadino, ho lavorato assieme a un equipe di colleghi in un rione della nostra città.

Cosa intendo per “educatore di strada?”

Allora: “educatore” lo abbiamo spiegato prima, per “strada” non intendiamo qualcosa di becero o pericoloso, ma semplicemente come “luogo informale di aggregazione”.

Tornando a noi: tutto iniziò da una serie di segnalazioni da parte dei residenti per via di un gruppo di adolescenti che consumavano sostanze e facevano danni in una piazzetta. Siamo andati lì e abbiamo convinto i ragazzi a passare del tempo con noi. 

Come? 

Instaurando una relazione di fiducia.

Come?

Allora tu attiri l’attenzione in qualche modo, magari facendo leva sui loro interessi, poi ti guadagni un po’ di fiducia, tu provi a non tradirla e da là puoi cominciare a chiamarla relazione di fiducia. Per averne una stabile ci metti gli anni, ma per cominciarla non ci metti molto. I ragazzi hanno tanto bisogno degli adulti.

Insomma in prima battuta, complice l’inverno, li abbiamo convinti a passare il tempo in uno spazio chiuso, di proprietà della cooperativa per la quale lavoro, piuttosto di passarlo al freddo in strada. Il calcetto ha fatto il resto.

Nel frattempo avevamo calmato gli animi del rione, facendo sparire i ragazzi dalla vista e riducendo, con la nostra presenza costante, il consumo di sostanze.

Avevamo conquistato la fiducia anche dei residenti: dagli esercenti, ai vicini fino ad arrivare anche ai genitori dei ragazzi stessi. Questa cosa non è scontata.

Arrivati a questo punto abbiamo cominciato a programmare l’evento di fine percorso.

Cos’è l’evento di fine percorso?

Ah! Vero! Lei spesso è abituato a leggere sul giornale la parola “festicciole” abbinata a “educatori”. Noi, fortunatamente, non le chiamiamo così. Non perché me la tiri, ma è che tendo a ispirarmi a figure quali Paulo Freire, Ivan Illich o Don Milani, non Jerry Calà, Fiorello o Umberto Smaila. Noi indichiamo gli eventi come “restituzioni” nel caso vengano proposti a fine di un percorso, appunto per restituire parte del lavoro svolto con la comunità alla comunità stessa. Altrimenti li chiamiamo “eventi” e basta, ma aggiungiamo “d’aggancio” quando questi vengono organizzati allo scopo di attirare l’attenzione della comunità su di noi per poi cominciare a costruire relazioni, come le spiegavo appunto in precedenza.

Soprattutto questi eventi sono programmati e progettati sin da subito. 

Noi educatori lavoriamo nella progettazione, siamo stati costruiti per quello. Il nostro intento professionale riesce a essere posto in essere esclusivamente in questa condizione. Nelle emergenze, invece, applichiamo solo il nostro intento naturale, né più e né meno di lei.

Detto questo abbiamo cominciato a battere le porte di tutte le realtà presenti sul territorio chiedendo loro un aiuto per la realizzazione di questo momento speciale. Sarà stata la gratitudine per aver tolto dalla strada quei (percepiti) pericoli pubblici, sarà stata sensibilità personale o una favorevole congiunzione astrale, ma riuscimmo a convincere tantissime persone.

Chiamammo una scuola alberghiera a preparare cocktail analcolici, permettendo ai ragazzi di fare pure pratica, e la frutta ci fu fornita dal botteghino del rione. Il restante materiale per la preparazione di questi intrugli colorati e dolci, fu generosamente offerta dal bar sportivo, i quali ci lasciarono usare pure i frigoriferi. Le merendine e le varie leccornie ci furono donate dalla latteria, poi arrivarono gruppi musicali, di ballo e persino castagne preparate dal gruppo di signori della microarea. 

Un anno dopo l’odio viscerale che provavano reciprocamente i ragazzi del luogo verso gli adulti, si trasformò in una scena meravigliosa: i ragazzi ballavano e cantavano con gli stessi adulti attorno che battevano le mani a tempo.

Fu proprio una bella “festicciola.”

Ce ne andammo lasciando un bel ricordo e tutelando, a oggi, un patrimonio di qualche milione di euro.

Perché?

Perché pare che un individuo, se resta vivo ed è inserito attivamente nella società, tra ciò che produce, consuma, gli investimenti fatti sulla sua persona da parte della collettività, vale circa 300 mila euro all’anno. Considerando che almeno tre ragazzi hanno asserito e dimostrato di aver cambiato radicalmente la loro vita a seguito di quella esperienza fatta insieme, diventando a loro volta educatori o praticando un mestiere scoperto assieme a noi, potremmo dire che abbiamo sicuramente contribuito a creare almeno tre cittadini dal valore di 300 mila euro annui. Il progetto risale al 2007 e quindi 14 anni fa. Ora provi a fare 300 mila moltiplicato 14 e moltiplicato per 3 e veda il prodotto.

Spaventoso, no?

Vede che il buon cuore c’entra poco?

Si, ma non mi prenda alla lettera.

Sta cosa l’ho letta solo sull’internazionale. L’aveva scritta tale sociologa Coin. Magari non ho capito l’antifona e mi sto sbagliando. Non sono così arguto. Se lo fossi stato non so se avrei fatto proprio l’educatore. 

Che poi, a dirla tutta, fu proprio grazie a questi progetti di educativa di strada che a Trieste abbiamo un unicum chiamato Androna degli Orti: un servizio che si occupa di ragazzi under 25 con problemi relativi alle sostanze stupefacenti. E lo sa che grazie alla fiducia che abbiamo guadagnato in strada, i ragazzi a Trieste, almeno riguardo alle sostanze, si rivolgono al servizio “solo” due anni dopo il primo utilizzo di sostanze, mentre in Italia la media è di quattro anni?

Questo perché si fidano.

Lavorare con quei due anni d’anticipo è lavorare sul velluto, mi creda.

Speriamo che questo trend continui e non si disperda assieme a l’educativa di strada.

Speriamo che possa toccare anche altri ambiti quali l’alcologia, la psichiatria giovani o banalmente i servizi educativi territoriali, quelli attenti a certe dinamiche.

Speriamo che la figura dell’educatore smetta di passare per quella di un animatore di villaggio turistico, o di crocerossino, o di normatore indefesso e si riprenda i contorni che merita.

Speriamo che dopo questo lungo monologo fatto in doccia e dopo averlo scritto riportato, per qualche buona congiunzione astrale, le arrivi in mano proprio a lei.

Non lo sa quanto spero che riesca a leggerlo tutto senza interruzioni e che si convinca, al netto della mia ironia, della bontà delle mie parole e che decida di aiutarci.

Quanto vorrei “educarla” ed essere “educato” da lei.

Quanto vorrei che sentisse sua questa città, come suoi i figli che incontra per strada, come suo il nostro futuro.

Poi, come ama citare il nostro Marino, riprendendo un concetto espresso da Charles Kettering: “Curiamoci del futuro, perché sarà il posto dove passeremo il resto della nostra vita.”