Il titolo è liberamente ispirato al capolavoro di Carlo Emilio Gadda: “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”. La suggestione m’è venuta perché la storia che vi sto per raccontare ne suggerisce per certi aspetti le stesse premesse. È tutto dannatamente ingarbugliato. Tutti rivendichiamo un torto, ma nessuno si assume il peso della ragione. Proviamo quindi a ragionare assieme, a farci soluzione e non parte del problema. Esaminiamo il tutto – in omaggio a Gadda – come fosse un gomitolo da srotolare.

Saranno vent’anni che nei pressi del rione di San Giovanni gruppi di persone evidentemente svantaggiate si riuniscono spontaneamente in zone infrattate. Principalmente il motivo è per farsi compagnia, non mancano tuttavia l’uso e l’abuso di alcol e sostanze e tutto ciò che ne deriva. Certamente sporcano e non fanno simpatia a vedersi, ogni tanto si lasciano andare a manifestazioni violente tra loro e di rado a interazioni spiacevoli con i passanti. Ciclicamente i residenti s’infuriano, queste persone si spostano di qualche isolato portando il problema da un’altra parte e si ricomincia. Cambiano i condòmini e cambiano spesso anche queste persone. Perché? Perché finiscono in carcere o in ospedale, o perché muoiono presto e spesso muoiono male. Certi stili di vita portano un conto salato. 

Oggi è la volta di via Bonomo. Pare che la situazione stia sfuggendo di mano. I residenti e gli esercenti sono con i forconi in mano ed è pure comprensibile. Non capisco perché lo sia anche l’amministrazione comunale. Sono loro al governo. A chi si stanno opponendo? Soprattutto non capisco perché gli educatori, chiamati a risolvere un pezzo della storia, vengano ritenuti da qualcuno parte del problema. Nel febbraio del 2023 il consiglio circoscrizionale votò all’unanimità la mozione per la quale si chiedeva l’inserimento della figura dell’educatore di strada e di un tavolo permanente per discutere sull’andamento dei lavori. Poi la cosa passò pure in Comune. Il 5 maggio arrivò la determina e il 18 venne affidata direttamente per competenze specifiche a una cooperativa sociale. 

Certo, visti i soldi – trentamila euro –, ossia la metà di ciò che era stato chiesto, sapevamo che la strada sarebbe stata in salita. In due settimane s’è formata l’équipe di educatori, cosa non semplice data la mancanza di questa figura professionale e la complessità del mandato. Ai primi di giugno gli educatori erano già in strada a mettersi in gioco con persone non sempre disponibili. A volte è come se il sottotesto, quando si parla di “educativa”, sia “inutilità e fastidio”. A tutti pare piaccia di più il “pugno di ferro”, come se nella storia questo fosse stato sempre risolutivo. E a dire che tutte le parti del Consiglio erano state tranquillizzate rispetto alle modalità operative di un educatore. 

Innanzitutto credo che per districare parte del garbuglio vada fatta chiarezza sulla figura dell’educatore di strada. Un educatore è una figura professionale che traduce con azioni educative il pensiero portante di un progetto pedagogico ben più ampio, all’interno di una progettualità ben distinta in chiave di tempo e risorse. Punta a restituire alla persona l’idea di essere un soggetto che sa stare CON IL mondo e non AL mondo. Al mondo stanno i cactus, con il mondo stanno le persone che sanno stare in un rapporto di interdipendenza con l’altro, facendosi valore e riconoscendo valore nel prossimo. Più o meno questo è educare. L’educatore nell’esercizio delle sue funzioni è mosso da un intento professionale e segue i tre cardini dell’atto educativo, concepito come sociale, asimmetrico e intenzionale. 

Che vuol dire? Vuol dire che in ogni azione educativa devono essere considerate le ripercussioni che questa avrà non solo sulla persona a cui è dedicata, ma su tutte le altre persone con le quali il soggetto fa sistema. Ebbene sì! È un atto politico. Asimmetrico vuol dir semplicemente che il rapporto educativo prevede che uno dei due sia un educatore professionale con competenze specifiche, quindi la comunicazione sarà sempre verticale. Al massimo ci si può vestire d’informalità, ma anche quello è un atto altamente professionale. Invece “intenzionale” suggerisce l’intenzionalità del gesto e la coerenza nel portarlo avanti allo scopo di far accadere precisamente qualcosa che si ritiene fondamentale per accompagnare la persona al cambiamento tanto agognato. 

La differenza tra un educatore e qualsiasi altra figura educativa di riferimento per una persona – genitori, ad esempio – è che queste ultime sono mosse da un intento naturale. Una madre non timbra mai il cartellino, non progetta sempre ogni suo agìto, ma sa naturalmente cosa andrebbe fatto e sa quanto sia fondamentale nell’intento naturale la funzione esemplificativa: un bambino non farà ciò che gli viene detto, farà ciò che gli viene mostrato. L’intento naturale, se sano e coerente, basta a se stesso. Il professionista si muove solo a supporto e non basterà mai a se stesso. Niente è come l’amore incondizionato della famiglia. 

Bene. Che cavolo c’entra tutto questo con la strada? “Strada” suggerisce il setting dove l’educatore va a muoversi, quindi parliamo di un luogo spontaneamente aggregativo, informale e fluido. E cosa fa ’sto benedetto educatore di strada? L’educatore di strada NON prende in carico la singola persona, ma l’intero sistema di riferimento. Potenziando, attraverso una buona progettualità, le relazioni tra gli elementi già presenti in loco, agevola il cambiamento del sistema in modo tale che diventi reciprocamente più inclusivo e comprensivo, con la finalità di restituire al singolo un’idea di responsabilità rispetto alla cura del proprio sistema, in modo tale che questo si curi meglio di lui. Poi va via. Va da un’altra parte. O cambia lavoro. Magari in pizzeria. 

Come possiamo desumere da quanto scritto in precedenza, una delle parole più utilizzate è “progettualità”. Questo è il campo da gioco. L’emergenza non riguarda l’educare e tantomeno l’educatore. Un educatore nell’emergenza si muove come può muoversi qualsiasi altro cittadino, non ha competenze in più. Per l’emergenza esistono figure ben qualificate come le forze dell’ordine, la croce rossa, il pronto soccorso, ecc. Quindi sì! Sveliamo l’arcano. Sfondiamo il tabù. Forze dell’ordine (per esempio) e educatori di strada possono coesistere. I primi possono e devono agire nelle emergenze senza che l’educatore gli stia tra le scatole. C’è una rissa? L’educatore non può nulla se non invitare alla calma e utilizzare la relazione, semmai ve ne fosse una, per placare i bollenti spiriti. Nel caso la situazione trascenda servono le forze dell’ordine. Fine. 

A che serve l’educatore allora? L’educatore serve in modo tale che questa non si ripeta. I frutti di un progetto educativo si raccolgono dopo anni. Non vale solo nell’intento professionale, ma anche in quello naturale. Basti pensare a quanto si possa gioire o ci si possa disperare dopo aver raccolto i frutti dell’educazione impartita ai figli da piccoli. Se l’educatore di strada ha lavorato bene, con il giusto supporto, ha portato una comunità ad avere al suo interno persone che si curano le une delle altre. Certe cose, però,  non succedono in cinque minuti. Dalla circoscrizione fino al comune tutti si convinsero della bontà di questa figura professionale e decisero di aprirsi a questa opportunità, anche perché sono vent’anni che questo problema persiste e le forze dell’ordine non lo possono arginare da sole. Anche perché stare seduti su un muretto non costituisce reato. Stare seduti, ubriachi su un muretto non costituisce reato. A stare seduti, molto ubriachi su un muretto, al massimo ti pigli una multa che tanto non paghi. E anche se ti becchi un DASPO poi ci torni lì o quel muretto verrà occupato da altri che a loro volta si prenderanno un bel DASPO e via dicendo. E dove vanno ’sti DASPATI? 

Non vorremmo alla fine ritrovarci tutti meravigliati del fatto che “il problema” diventi incredibilmente di altri e che – guardacaso – non era la soluzione. Ma qual è il problema? Sgarbugliamo anche questo… O almeno proviamoci! Al di là del sintomo, ossia la presenza di gruppi informali che “rompono le palle” agli altri, ci sono varie versioni su quali siano le cause di ciò. C’è chi dice che sia la presenza del Ser.T a San Giovanni a provocare ciò. C’è chi dice che sia la miseria endemica che ci affligge. Per “miseria” intendiamo una povertà cronica. Per “povertà” consideriamo una condizione che porta all’assenza temporanea di risorse per la realizzazione del proprio progetto di vita, dalla quale si può uscire generando e riconoscendo valore (ndr: questo giochino sulle definizioni fa capire quanto sia importante una buona educazione per evitare lunghi momenti di povertà). C’è chi dice sia il buonismo di una società inclusiva a permettere a certi prodigi di perpetrare i loro orrori impunemente ai danni dell’onesto contribuente. C’è chi parla di una responsabilità sociale, di cui nessuno sa farsi carico, a lasciare che questa voragine di malessere si espanda ogni giorno di più. C’è chi dice anche che il problema di per sé non siano “loro”, ma una certa frangia politica che si diverte a far da mantice al risentimento per guadagnare facili consensi, promettendo soluzioni che non potranno mai essere attuate. C’è, infine, chi se la prende con la politica, ritenuta inadeguata a fronteggiare con onestà intellettuale e in maniera pratica qualsivoglia tipo di problema. 

Qua ci addentriamo nella complessità vera, ossia nel mondo delle sensazioni personali, dei numeri torturati dalle statistiche fino a che non rivelano ciò che si vuole, siamo dentro alle euristiche cognitive più spiazzanti e non sarò di certo io a tirarmi indietro. 

Personalmente credo che la prima versione non stia in piedi da sola. Ci sono quartieri di Trieste che soffrono delle stesse problematiche pur non avendo nessun Ser.T vicino. Credo che dal momento in cui esiste un muretto o una panchina, possa succedere qualsiasi cosa e se metti che siamo a livelli di povertà assoluta e relativa molto alti con un boom di consumo di sostanze da spavento, credo piuttosto che il Ser.T, con le sue prese in carico, sia parte della soluzione e non del problema. Per di più, se proprio vogliamo, c’è anche il servizio di Androna Giovani, una sorta di Ser.T per ragazzi, che conta più di 200 utenti all’attivo e più di 500 dall’apertura, situato nel centro storico della città, che è diventato addirittura risorsa per il rione generando un buon impatto sociale, senza causare mezzo problema ai residenti in più di dieci anni di attività. 

Quella della “miseria” è un po’ come buttare la palla in tribuna sullo 0 a 0 a due minuti dal termine. Ci sta dentro a qualsiasi conversazione moderna sul disagio. Non è sbagliato, ma uccide la “vibe”. Quella del buonismo è interessante, non tanto sull’esternazione di per sé, ma su ciò che viene in seguito immaginato come soluzione. C’è chi paventa l’ipotesi di una transumanza di persone da un posto all’altro come fossero bestie e altre persone pastori. C’è chi li vede in qualche parco recintato messi ai margini della civiltà e altri addirittura in un non luogo, basta che spariscano – no, non hanno il coraggio di dire che li vorrebbero morti. Poi c’è la responsabilità sociale non assunta da nessuno che fa il paio con una politica concentrata sicuramente su altri obiettivi e strategie. Non è un mistero che abbiamo tutti il mito del self-made man, della persona capace di fottersi il capitale prima che questo fotta lui. 

È lapalissiano che ci stanno spingendo a combattere i poveri anziché la povertà. Ma che lo scrivo a fare?

La verità è che certi fenomeni non possono essere attribuiti a una sola causa. È la capacità di compattare se stessi che manca, quella facoltà di vedere e apprezzare le cose nel loro insieme e nella loro complessità. Chissà quanti altri elementi mancano come spunto di riflessione per realizzare una disamina onesta? La realtà, va detto, è che ogni garbuglio si districa anche “facilmente” dal momento in cui si crea naturalmente. Ma dal momento in cui c’è la mano capziosa dell’uomo ad annodare proditoriamente dei fili precisi, lì va a crearsi quel momento specifico in cui siamo con gli occhiali bifocali sul naso, mezza lingua puntata sul labbro superiore, un rivolo di sudore sulla tempia a cercar con le unghiette di snodare quella piccola bestemmia attorcigliata. Dopo un po’ sbatti tutto sul tavolo e capisci che da solo non ce la puoi fare. Ti vengono a mancare la pazienza prima e la forza poi. 

Non sarà questo progetto di “educativa di strada”, per come è stato impostato dalla politica, a risolvere in toto il problema, semplicemente perché questo progetto è stato pensato per non risolvere in toto il problema. Qui spezzo una lancia a favore dei tecnici: è stato dato un mandato difficilissimo a encomiabili professionisti che ce l’hanno veramente messa tutta. Difatti hanno messo su un progetto ottimo in relazione alle risorse messe a disposizione. Secondo la determina del Comune, il contratto stipulato, che scade alla fine di quest’anno, prevede: a) attivare l’équipe di operatori e avviare l’aggancio con il gruppo di persone in questione; b) stabilire obiettivi di minima con il gruppo evidenziando alcune criticità nel loro stare; c) segnalare, accompagnare e agevolare la presa in carico da parte dei servizi sociali e sanitari qualora ve ne fosse bisogno; d) intervenire con pratiche di riduzione del danno su soggetti che consumano sostanze; e) stimolare piccoli interventi di educazione ecologica, sensibilizzando queste persone alla cura dell’ambiente circostante; f) realizzare e/o partecipare a tavoli di discussione con tutti i portatori d’interesse, per migliorare la convivenza e superare il disagio attuale. 

A me piace. 

Dopo due mesi posso anche dire che gli operatori sono anche a buon punto, mancano quattro mesi al termine. 

Se vanno in porto tutti i punti si potrebbe parlare anche di un “buon inizio” per qualcosa di più grosso, come generare una nuova cultura in quella comunità. 

Solo che, nemmeno iniziato il progetto, l’amministrazione stessa che ha dato mandato se ne esce urlando: “Sì, ma è inutile!! Non lo rifinanzieremo più!”. E allora, diciamolo che non vedevano l’ora di dimostrare che “l’educativa di strada è inutile”, caricandola dapprima di aspettative irrealistiche rispetto sia all’investimento stanziato che per le tempistiche entro le quali avrebbe dovuto svilupparsi e concludersi il progetto, per poi boicottarla e affossarla pubblicamente non appena vi fosse stata l’occasione. Il tavolo di lavoro (punto f) è stato usato per creare capri espiatori, per spostare per l’ennesima volta il problema. Sono state usate dalla politica le parole peggiori per mettere in cattiva luce, prima ancora che le idee, le persone che si sono spese per metterle in pratica, che stanno dando tutte se stesse, sia umanamente che professionalmente. 

L’altro giorno è stato detto in Consiglio comunale che se all’educatore piace fare questo lavoro, che lo faccia gratuitamente. Svilire così dei professionisti a cui noi stessi abbiamo dato mandato, non è né onesto e né corretto. Far passare alcuni consiglieri come “quelli che dicono che il problema non esiste” non è corretto. Nessuno che abbia un minimo di onestà intellettuale potrebbe mai aver pensato o detto una cosa del genere. Esultare per un DASPO senza fermarsi a ragionare su come metterci nella condizione, in futuro, di non doverlo mai usare, fa capire quanto il futuro non interessi a nessuno. 

Magari, invece, sto solo sopravvalutando questa gente e loro non hanno mai pensato a nulla del genere. 

Magari sono solo dominati dal registro del pensiero breve, quello di pancia, simpatico, utile nella risoluzione istantanea di una necessità, ma che taglia di fatto fuori il pensiero lungo, quello lento e d’insieme e che di ’sti tempi genera solo tanta frustrazione. 

Che a veder la realtà nel suo insieme, oggi, fa un male cane. 

Basta. 

Mi sono già dilungato abbastanza. E a dire che avevo pensato a “sto pezzo” come a una lettura da spiaggia. 

È che non mi piace andare al mare e odio la spiaggia. E l’odio, se lo si prova, a lungo andare, viene fuori. Sempre. 

Chiudo come ho iniziato, citando Gadda. 

«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia.»

[📸 Foto di copertina di Jose Antonio Gallego Vázquez, su Unsplash]