Aderiamo alla campagna per un salario equo #sottodiecièsfruttamento, promossa da Up, che identifica nei 10 euro lordi l’ora la soglia minima per un salario degno di questo nome.

In tutta l’Unione Europea, solo la Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia, Svezia e Italia non sono dotate di strumenti legislativi per la tutela dei lavoratori a bassa fascia di reddito. Ai due estremi opposti, in Bulgaria il salario minimo è di 330 euro, in Lussemburgo di 2200 euro. Pochi giorni fa la Commissione Europea ha avviato le negoziazioni con gli stati dell’Unione per iniziare il processo di regolamentazione e armonizzazione del salario minimo. Nella bozza proposta dalla Commissione, i ricercatori invitano a un approccio pragmatico: la soglia del salario minimo dovrebbe essere il 60% dello stipendio medio lordo, ma nei paesi come l’Italia, dove lo stipendio medio non solo è rimasto fermo negli ultimi trent’anni, ma è addirittura diminuito, la Commissione stabilisce che il provvedimento debba essere tarato sulle reali condizioni esistenti, con il coinvolgimento dei sindacati e prendendo in considerazione diversi parametri sui beni di consumo e le spese cui i cittadini sono soggetti. Lo scopo è garantire condizioni di vita dignitose a tutti i cittadini.

Ma c’è qualcosa che le amministrazioni locali possono fare per tutelare i lavoratori e impegnarsi a garantire buone condizioni di lavoro anche quando esternalizzano i propri servizi? Prendiamo il caso del Comune di Trieste, che ha appaltato tutti i servizi museali all’impresa Euro&Promos per più di 4,3 milioni di euro. Decidendo di fare un bando di gara al massimo ribasso, ha permesso che ai lavoratori venisse applicato un contratto non congruo, un contratto di guardiania e sorveglianza, meno remunerativo rispetto a quello previsto dalle loro mansioni e competenze, per cui la retribuzione oraria di persone qualificate in discipline culturali e in grado di parlare lingue straniere, si aggira sui 4-5 euro.

Quando vengono messi davanti alle loro responsabilità, sindaco e assessori si nascondono dietro a scuse inconsistenti: non è di competenza del Comune, il Comune non può intervenire su questioni salariali, tutto rientra nella legalità e quindi le condizioni offerte dalle imprese che si aggiudicano gli appalti non possono essere contestate. Ma di fatto basterebbe cambiare a monte le condizioni del bando e aggiudicare la gara in base a criteri di rapporto qualità/prezzo, avendo cura di stabilire requisiti diversi. 

È una questione di volontà politica. Inevitabilmente, infatti, quando vince l’offerta al massimo ribasso le imprese che partecipano si rivalgono sull’aspetto su cui hanno maggiore libertà di agire: la riduzione dei salari. 

Eppure è facile capire che dipendenti soddisfatti e gratificati lavorano con passione e abnegazione, producendo risultati migliori. È tanto più paradossale dunque che l’amministrazione continui la sua propaganda sull’eccellenza dell’offerta turistica cittadina ma si disinteressi totalmente degli stipendi da fame degli operatori museali: le due cose si escludono a vicenda. 

Situazioni analoghe di sfruttamento si verificano per altri servizi appaltati in esterno, dal personale delle mense scolastiche a quello delle pulizie, laddove un tempo i lavoratori erano assunti dal Comune con ben altre tutele salariali e della qualità del lavoro.

Ecco perché l’esigenza di un salario equo per tutte e tutti deve interessare anche le istituzioni locali, che già dispongono di strumenti per agire a tutela dei lavoratori.