Sabato 4 giugno ci siamo ritrovati in piazzale Gioberti e ci siamo soffermati presso il cosiddetto “Impianto Sportivo Polivalente”, cantiere permanente da circa 10 anni.

La storia inizia nel 1932. L’area, da rimessa e officina per vetture tranviarie, diventa depositeria comunale, e poi, anziché essere restituita all’uso pubblico e alla cittadinanza, viene convertita, per interessi privati, all’ennesimo megaimpianto sportivo di nessuna utilità sociale, ma a cui sono stati destinati soldi pubblici.

AT aveva denunciato e preso posizione su questo abuso, e nell’esplorazione di oggi abbiamo ribadito questa convinzione. Se c’è stato sperpero o uso improprio di fondi pubblici per un’opera edilizia inutile, non saranno certo i cittadini a doverne fare le spese, ma altri a renderne conto.

Oltretutto è scomparso il cartello dei lavori in corso, non è presente la cartellonistica informativa né la segnaletica di sicurezza di cantiere, d’obbligo per decreto legislativo del 9 aprile 2008. Al momento al cantiere si può accedere liberamente, nessuna transenna impedisce il passaggio. 

A Trieste risulta non essere mai stata applicata la legge 10/2013, adottata con l’obiettivo di frenare il consumo di suolo, di equilibrare lo sviluppo edilizio con la presenza di spazi verdi, con l’obiettivo dunque di risolvere problemi annosi che richiedono ben altre soluzioni di quelle prospettate dall’attuale giunta, tanto più ora in fase di applicazione del PNRR. Sembra infatti che, per la giunta, il concetto di bioarchitettura si esaurisca nel posizionamento di qualche agave o pianta ornamentale sui tetti delle case. Noi invece pensiamo che sia necessaria una svolta radicale e che la sola riqualificazione verde degli edifici già esistenti non basti.

Nella nostra esplorazione siamo stati accompagnati da Gianni Bua dello SPI CGIL. che ci ha spiegato i problemi legati al progetto PINQUA. PINQUA non è un normale progetto di riqualificazione abitativa, ma una sperimentazione: a partire dalla ristrutturazione edilizia di alcuni stabili Ater a Guardiella, potrebbe coinvolgere altri quartieri o zone della periferia.

Il piano PINQUA prevede sei interventi :

  1. in Via Caravaggio 4 edifici
  2. in via Tintoretto 2 edifici
  3. in via Piero della Francesca 4 edifici
  4. in via San Pelagio la risistemazione di 200 mq di area verde (Ddl/Giunta 11/3/2021 spesa 411mila euro)
  5. l’ampliamento della Microarea in via San Pelagio 7
  6. l’ultimazione dei lavori della Casa delle Associazioni in via Caravaggio 6 (ex scuola Filzi) e di un’area di svago in piazzale Gioberti, prospiciente il costruendo impianto polisportivo (vedi sopra) da completare entro dicembre 2023.

Attraverso via San Cilino siamo giunti in via Brandesia. La toponomastica di via San Cilino è errata e parziale: bisognerebbe intervenire anche in questo ambito, per restituire tracce di storia e dare cognizione di autentica memoria al passato storico dei luoghi in cui viviamo. 

Sulla porzione di area oggi occupata da Vivai Busà, diventata edificabile, non abbiamo potuto avere notizie: vedremo di colmare questa lacuna prima che ci si ritrovi, magari, con l’ennesimo cantiere edile…

Alla fine di via Brandesia opera la Comunità di san Martino al Campo con una casa di accoglienza per persone con difficoltà psicologiche e/o con deficit cognitivo, dotate di parziale autonomia. La proposta di vita comunitaria si basa su ritmi e modalità di famiglia, con il sostegno all’acquisizione di una certa autonomia abitativa e di gestione della propria quotidianità.

La Comunità di San Martino al Campo è un’organizzazione di volontariato che può contare oggi sulla collaborazione di un centinaio di volontari i quali, affiancati da personale educativo, offrono il loro servizio gratuito all’interno delle strutture gestite dalla Comunità di San Martino. L’obiettivo è ascoltare e accogliere persone in difficoltà – giovani e adulti con disturbo mentale, alcolisti, tossicodipendenti, carcerati, senza fissa dimora, persone che nella loro vita hanno incontrato numerosi fallimenti, adolescenti impegnati nella “fatica” della crescita – cercando delle risposte e delle soluzioni ad alcuni dei loro problemi, attraverso un percorso che può includere anche la proposta di vita comunitaria.

Alla fine di via Brandesia abbiamo deviato in salita di Vuardel e poi in via San Pelagio, dove l’Ater (ex IACP) ha sviluppato, senza soluzione di continuità, una serie di interventi per abitazioni popolari minime dai primi anni Cinquanta fino agli anni Settanta del secolo scorso. Trascurandone la gestione, dimenticando cioè le periferie, chi era al governo della cosa pubblica si è girato dall’altra parte: già nei primi anni Novanta tutta la situazione era in degrado. Come mai non si è intervenuti prima?

Il portierato sociale, che di fatto svolge le funzioni di Microarea, è attivo dai primi anni Novanta, ma il servizio chiude sabato e domenica. Bisognerebbe intervenire riconsiderando l’utilità sociale e il valore aggiunto che queste strutture determinano, il ruolo che svolgono a vantaggio della collettività.

In sinergia con l’educativa di strada e altre proposte coordinate, sarebbe possibile rendere più vivibile il quartiere, ma vanno investite più risorse, personale, attrezzature.

Kevin Nicolini , che lavora nella Microarea di Zindis, ci ha accompagnato anche in questa esplorazione. Kevin oggi presidia, in Consiglio comunale, il terreno di quella più vasta problematica sociale su cui molte forze politiche, associazioni, organizzazioni sindacali e sociali si stanno impegnando: la difesa della sanità pubblica per impedire i tagli previsti e il ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale. Ci ricorda come l’emarginazione. prima di essere un problema sociale, è il risultato di scelte economiche divaricanti, inique e divisive, e produce più di una dipendenza da cui ci si può affrancare solo con la partecipazione e la lotta in prima persona e tutti/e assieme .

Alla fine di via san Pelagio abbiamo svoltato a sinistra risalendo la parte terminale di via delle Cave e giungendo in via Capofonte, un luogo storico, non solo del rione di Guardiella, ma importante per tutta la città .

In breve, grazie a questo acquedotto – le cui sorgenti vennero trovate da due minatori tedeschi già operativi nelle miniere di Idria – fu possibile imbrigliare le acque di più sorgenti e costruire un moderno acquedotto che portasse l’ acqua a una città in espansione.

Il cronogramma presente sull’epigrafe posta all’entrata ci dice che l’acquedotto teresiano fu messo in attività nel 1751, riporta i nomi del governatore Nicholas Hamilton e del barone (e grande finanziere) Rudolf Chotek, ma non quelli degli operai.

Li ricordiamo: Johannes Haase e Hauptmann (di cui non si sa il nome), come si evince dal Libro delle Leggi e Regolamenti del Comune di Trieste del 1861.

Il 1751 era l’anno in cui si demolivano le vecchie mura, si costruiva il Molo San Carlo, si gettavano le fondamenta del Molo della Lanterna, il sobborgo di Guardiella contribuiva a questo sviluppo attraverso il lavoro delle braccia di uomini e donne, nelle campagne in quanto sobborgo agricolo, nelle cave che dovevano fornire le pietre per la città e le nuove abitazioni che prendevano forma.

A poca distanza dall’Acquedotto sostiamo davanti alla “vecchia” chiesa di Guardiella, datata 1338 ma restaurata nel 1876 prima di venire definitivamente sostituita dall’attuale chiesa di piazzale Gioberti, costruita nel 1858.

Nel discendere verso via Tintoretto (case Ater) passando per via delle Docce al n° 15 molti si poniamo la domanda sul grande spiazzo vuoto davanti all’asilo “La Nuvola” costruito sulle macerie della ex caserma Chiarle, demolita qualche anno fa. Il luogo antistante è deserto e in stato d’abbandono ma c’è un cartello di recente fattura, che parla di conclusione dei lavori nel 2022. Magari si può fare una interrogazione riguardo alla tempistica, per avere qualche conferma o saperne di più: al momento non c’è nessuno che lavori a rimuovere i detriti; tra l’altro, c’è chi si fa anche la domanda sul futuro della caserma (scuola di polizia) di via Damiano Chiesa. E possibile sapere qualcosa in merito?

L’ esplorazione termina tra la scuola Filzi, futura sede delle associazioni ma ancora inagibile, e le vetuste e combuste facciate delle case di Via Tintoretto dal 5 in poi, che dovrebbero essere risanate e restituite a nuova vita dal PINQUA, con gli interventi di Gianni Bua (Spi Cgil) e Kevin Nicolini.

Questa è stata la prima di una serie di esplorazioni che contiamo di realizzare, con scadenza ravvicinata e anche coordinandoci con le altre assemblee territoriali della III e della VII Circoscrizione (era presente Iulia Negru) perché c’è un lavoro di indagine da compiere, problemi da evidenziare, per dare forma a un programma di governo della città che, come abbiamo scritto nel nostro programma, può trovare la sua più compiuta realizzazione solo attraverso l’impegno e la partecipazione di tutte e tutti. 

 

Note storiche

Guardiella (Wardiela, Vrdielia, commistione linguistica longobardica e slava tra longobardi e germanici, per cui anche il lago Benaco diventa il lago di Garda) nel 1884 aveva 4700 abitanti e 4 scuole con lingua d’insegnamento slovena.

Il borgo saliva verso Capofonte a 92 msm , nel 1751 fu ripristinato e ampliato l’acquedotto romano e con l’espandersi della città verso la periferia tutto il borgo crebbe e mutò d’aspetto. La chiesa nuova fu costruita nel 1858 e quella vecchia fu restaurata nel 1876.

San Pelagio: secondo il Martirologio romano era stato un giovane ispanico torturato dagli arabi. Guardiella era un borgo sloveno, e San Pelagio (Šempolaj) è un nome che ricorre spesso nella devozione religiosa slovena; il fatto che lo si festeggi il 26 giugno, che il 21 cada il solstizio d’ estate e che la “festa” di San Giovanni Battista cada il 24, testimonia una particolarità della cultura religiosa contadina: una settimana di astensione dal lavoro (che poi i protestanti distrussero).

Ci sono alcune voci sulla chiesa: che fosse luogo di ritrovo dei Templari fino al 1426, intorno un piccolo cimitero, che fosse stata eretta sulle rovine di un tempio pagano, e che nel restauro del 1620, auspice il Vescovo Francesco de Vaccano, fossero qui riposte alcune reliquie.

La chiesa fu costruita intorno al 1330 /1340 al tempo dei podestà veneti, i Dandolo, in un periodo in cui ferveva analoga attività nella città affacciata sul mare (chiesa di San Pietro in Piazza Grande, chiesa di San Giusto 1320 col completamento del Campanile). Di fatto si costruiva anche in periferia. Una lettura degli statuti di Trieste (1350, 1365) spiega come fosse organizzata la vita sociale.