Quando la politica prende scelte favorevoli ai soliti interessi particolari, ma totalmente contrarie al buon senso e all’interesse generale, è costretta a produrre una quantità di annunci trionfalistici e proclami epocali superiore alla – comunque già alta – media.
È il caso della firma dell’Accordo di Programma per la trasformazione dell’area di Porto Vecchio. Dopo decenni di attesa la montagna della politica triestina ha partorito il seguente topolino: in una città con 12.000 alloggi vuoti (di cui 2.000 pubblici) e 1.800 fori commerciali sfitti, il Porto Vecchio viene concepito come il “quarto borgo” storico della città, con una zonizzazione urbanistica che prevede fino al 70% di residenza e altre funzioni legate al commercio e ai servizi, ad esclusione dei due magazzini per cui la Regione prevede il trasferimento dei propri uffici, scelta che porterebbe allo svuotamento di diversi altri immobili in centro.
Vorremmo far presente all’attuale Giunta Comunale una verità ben nota a chiunque, che dovrebbe essere il punto di partenza per qualsiasi proposta sul Porto Vecchio: se Trieste continua a perdere residenti e attività commerciali, non è perché manchi spazio per case e negozi. Trasformare Porto Vecchio in un nuovo rione della città, come enunciato nella variante al Piano Regolatore predisposta dal Comune, dunque, non è una soluzione ai problemi di Trieste. Rischia anzi di essere parte del problema, poiché il suo anche parziale “riempimento” genererebbe ulteriori vuoti nel resto della città. Si tratterebbe di uno sviluppo senza nuove attività, incapace di generare posti di lavoro di qualità nel rispetto dell’ambiente: proprio ciò di cui Trieste avrebbe invece bisogno.
Porto Vecchio è un’area strategica, di rilevanza potenzialmente internazionale, connessa dal punto di vista logistico via mare e via ferrovia, baricentrica rispetto al sistema della formazione e della ricerca triestino, con edifici di grande pregio ma allo stesso tempo altamente flessibili nell’ospitare diversi usi. Uno spazio in cui è necessario insediare un parco eco-produttivo, anche grazie alla spinta di investimenti pubblici come quelli di Next Generation EU (il tanto discusso Recovery Fund). Un parco eco-produttivo è un’area che può ospitare attività industriali e artigianali ad alto contenuto tecnologico, integrate non solo tra loro, ma anche con la città, dal punto di vista dell’uso delle risorse, della logistica, della formazione e della ricerca. Uno spazio aperto a nuove idee e imprese, capace di produrre ricchezza e di distribuirne i benefici a tutte le triestine e tutti i triestini.
Tutte le scelte delle Amministrazioni Comunali che si sono succedute nell’ultimo decennio sono andate nella direzione opposta a questa prospettiva.
Partendo dallo studio commissionato nel 2016 dalla Giunta Cosolini per 170.000€ a Ernst&Young, gruppo di consulenza finanziaria e contabile che suggeriva di puntare sull’uso turistico dell’area, per passare alle linee guida sulla trasformazione del Porto Vecchio, approvate nel 2019 con il consenso unanime di centro-destra e centro-sinistra. In quell’occasione si è ribadita una prospettiva del tutto contraria al riuso produttivo dell’area, con una visione della mobilità interna completamente incentrata sull’automobile privata nell’unica area della città fino ad oggi non invasa dalle auto (basti pensare alle quattro corsie carrabili e ai cinque megaparcheggi all’interno del vecchio scalo, nonché alla turborotonda in Piazza Duca degli Abruzzi). Scelte confermate nella variante al Piano Regolatore che oggi viene di fatto incorporata nell’Accordo di Programma.
Trieste deve presentarsi preparata alla sfida dei prossimi decenni, pronta ad attrarre le produzioni di ritorno in Europa dopo anni di delocalizzazioni, offrendo spazi adeguati e reti logistiche e della conoscenza all’altezza, e potendo dunque garantire alle triestine e ai triestini le migliori condizioni in termini di ricadute occupazionali e sull’ambiente. Allo stesso tempo, Porto Vecchio potrebbe essere un laboratorio di mobilità nuova, con un’efficiente linea tramviaria, percorsi pedonali e ciclabili di qualità e un’impostazione complessiva che guardi alle più evolute esperienze europee anziché al passato.
Per fare tutto ciò, è necessario che lo sviluppo di Porto Vecchio sia concepito come un’impresa collettiva, che coinvolga, con un percorso partecipato, la cittadinanza e i portatori d’interesse. In questa logica, piuttosto che prevedere la mera vendita degli immobili, sarebbe di gran lunga preferibile ragionare in termini di concessione e comodati d’uso, in modo da governare le destinazioni d’uso dei beni e dell’area nel suo insieme. Ciò assicurerebbe un introito costante nel tempo anziché un incasso una tantum, oltre che il controllo pubblico sulle linee di sviluppo di Porto Vecchio, orientandone il percorso di riutilizzo secondo un disegno più ambizioso. Occorrerebbe perciò che il Comune intavolasse su questo punto una discussione con l’Autorità portuale, trovando un accordo utile per le parti e per la città. È necessario inoltre prendere in considerazione l’opportunità di reinsediare zone franche internazionali ed extradoganali nell’area e non solo lungo la linea di costa.
Le decisioni fallimentari sul Porto Vecchio sono la cartina di tornasole di un’Amministrazione che, come ha ribadito più volte il Sindaco Dipiazza, per il 2021 aspira a “tornare al 2019”. Adesso Trieste pensa invece che la città abbia bisogno di una classe dirigente in grado di guardare al futuro – e non al passato – con concretezza, con il coraggio necessario per affrontare i veri problemi della città con soluzioni chiare e condivise. A Trieste serve un nuovo orizzonte produttivo, servono posti di lavoro di qualità, serve affrontare con serietà la crisi climatica: per queste ragioni a Trieste serve una nuova Amministrazione e quest’anno può essere quello decisivo per cambiare rotta.